Se c’è una cosa che questa pandemia ci ha insegnato, è che non solo adesso è possibile lavorare da casa, ma che è diventato un’abitudine, una normalità. Sentiamo spesso parlare di new normal, ma quanto siamo veramente pronti a convivere con una nuova modalità di lavoro fino a poco tempo fa ritenuta un’eventualità remota?
Ci sono sempre due fazioni quando si parla di smart working: da una parte troviamo i lavoratori a favore, coloro che la ritengono una modalità “salva tempo” in grado di ottimizzare il lavoro e dedicare più tempo a se stessi. C’è anche chi, al contrario, ha delle difficoltà a lavorare da casa. Il lavoro da remoto, infatti, può comportare una riduzione della produttività e un abbassamento del morale e, se non attentamente regolamentato, può portare all’inefficienza, può intaccare le relazioni e demotivare i collaboratori. Chi si occupa delle risorse umane deve fronteggiare queste dinamiche con tempestività.
In un Paese come l’Italia in cui lo smart working è stato regolamentato solamente nel 2017 con il “Jobs Act dei lavoratori autonomi”, è stato difficile per molte aziende adeguarsi e adattarsi al lavoro agile. Com’è possibile allora aiutare le aziende in questo processo?
Sembrerà banale, ma se un lavoratore ha la possibilità di lavorare da remoto, vuol dire che può lavorare da qualsiasi luogo d’Italia o dell’Unione Europea. Questo comporta un bacino di selezione decisamente più ampio e il processo di recruiting a questo punto perde tutti i vincoli territoriali. Se ieri ti limitavi a selezionare una figura solo su Milano, oggi puoi cercare in tutta Europa!
Anche in questo caso, però, abbiamo l’altra faccia della medaglia con cui fare i conti: se i recruiter hanno un bacino di utenti più ampio, i lavoratori alla ricerca di un impiego dovranno gestire una competizione inevitabilmente più alta. Se ieri dovevi competere con i copywriter di Milano, oggi devo competere con i copywriter d’Europa!
Siete pronti a riorganizzare il processo di recruiting e di gestione delle risorse umane?